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Mowgli e Thoreau nelle terre selvagge (insieme a molti altri)

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“Mamma, come baby sitter posso avere un orso invece di mio fratello?”
“No scricciolo, saresti più al sicuro ma qui di orsi purtroppo non ce ne sono”

Erano gli anni Novanta, avevo sette anni e mangiavo gelato davanti al televisore sognando di scorazzare per la giungla con Baloo e Bagheera, un orso e una pantera così diversi fra loro eppure uniti da un amore incondizionato per me, piccola bambina perennemente spettinata e mai composta. A distanza di più di quindici anni, poche cose sono cambiate: ancora oggi, davanti a un film, preferisco il gelato ai poc corn e qualsiasi trama “selvaggia” (cinematografica o letteraria che sia) mi trascina nel fantastico mondo delle foreste e delle giungle, a sognare di potermi lanciare nella natura (quella vera!) per vivere di istinti e di beni primari, mettendo alla prova il mio corpo e allenando la mia mente, purificandola e rinforzandola sempre più. Probabilmente non avrò mai il coraggio (e il fisico) per poterlo fare eppure posso testardamente affermare che da piccina invidiavo Mowgli tanto quanto oggi adoro Henry David Thoreau e tutti coloro che si sono ispirati a lui: scrittori, registi e, soprattutto, persone con un coraggio infinito.

Mowgli è un cucciolo d’uomo, un bambino orfano ritrovato in una cesta da Bagheera, una pantera nera, il cui compito (e volere) è quello di riportare il ragazzino nel villaggio, tra i suoi simili, allontanandolo dal cuore della giungla indiana e, soprattutto, da Shere Khan, la pericolosa tigre del Bengala, intelligente e spietata come tutti i più temibili nemici. Eppure per Mowgli non è così facile dover dire addio a quello che considera il suo habitat naturale, a quel mondo selvaggio ma autentico in cui è cresciuto e ha instaurato le sue prime amicizie, superando non poche difficoltà e vivendo entusiasmanti avventure che Walt Disney ha voluto portare sul grande schermo nel 1967 decidendo, così, di trasformare in film Il libro della giungla di Rudyard Kipling, scrittore e poeta britannico, guarda un po’, di origini indiane.

E da Kipling a Thoreau il passo è breve. Tre anni prima che lo scrittore britannico nascesse a Bombay (1865), in America, più precisamente a Concord, nello stato del Massachusetts, moriva il filosofo più disobbediente degli Stati Uniti. L’opera più famosa, e citata, è ancora oggi Walden, vita nei boschi, lo scritto autobiografico in cui Thoreau racconta la sua personale esperienza d’isolamento e il suo tentativo (riuscito) di vivere per due anni a stretto contatto con la natura, libero da qualsiasi legame materialistico, forte nel desiderio di credere solo nelle proprie forze.

Tutti gli uomini hanno bisogno non di qualcosa con cui fare, ma di qualcosa da fare, o piuttosto di qualcosa per essere. Forse non dovremmo mai procurarci un abito nuovo, per quanto stracciato e sporco sia quello vecchio, finché non ci siamo comportati in maniera tale, o non abbiamo compiuto o variato azioni tali, da sentirci uomini nuovi nel vestito vecchio, cosicché conservarlo sarebbe come tener vino nuovo in bottiglie vecchie.

Una scelta di vita simile non può di certo lasciare indifferenti gli animi più avventurosi tanto che nel tempo Thoreau diventò un modello da seguire. Tra gli ammiratori del suo pensiero, per esempio, siamo certi di trovare Christopher McCandless, il protagonista del libro di Jon Krakauer, Nelle terre estreme (1997). L'opera dell'alpinista americano, infatti, racchiude i diari del giovane nomade e i racconti delle persone che ha incontrato lungo il proprio cammino verso l'Alaska, alla ricerca della solitudine e, soprattutto, del distacco con la società malata e corrotta che circondava la sua vita nel Washington. Ispirato, fra i molti libri letti, dall'opera Walden, vita nei boschi, Christopher McCandless, infatti, decise di spogliarsi di tutti i suoi averi e addentrarsi nelle terre selvagge dell'Alaska determinato, persino, a cambiare nome e autobattezzarsi Alexander Supertramp, il più bel ragazzo sorridente che si sia mai visto davanti a un vecchio autobus abbandonato, dal protagonista chiamato Magic Bus per tutti i 112 giorni trascorsi nel parco nazionale del Denali. 

C'è tanta gente infelice che tuttavia non prende l'iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l'animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo. 

Queste parole le scriveva proprio Christopher McCandless in una lettera all'amico Ronald Franz e se non fosse praticamente impossibile ci verrebbe da pensare che una scrittrice americana le abbia lette proprio prima di avventurarsi senza paura (ed esperienza!) lungo uno dei percorsi escursionistici più famosi (e difficili) d'America. Nell’estate del 1995, infatti, tre anni dopo la morte di Christopher McCandless, Cheryl Strayed tentava di mettersi sulle spalle uno zaino più grande (e pesante) di lei, il cui contenuto sarebbe stato l’unico compagno di viaggio lungo il Pacific Crest Trail, il sentiero escursionistico che si snoda sulle catene montuose della Sierra Nevada e la Catena delle Cascate della California, dell’Oregon e di Washington, un percorso (per farla di breve) di “soli” 4.286 km. La cosa più straordinaria è che Cheryl non era nemmeno un’escursionista: il suo animo (fino a quel momento non troppo avventuroso) era in tumulto per la perdita della madre, il cui lutto inaspettato aveva causato una necessità d’evasione che la stessa autrice racconterà pochi anni dopo nella sua autobiografia Wild. Una storia selvaggia di avventura e nella quale non mancherà di specificare come quel viaggio la salvò da vizi e pensieri superflui che stavano lentamente distruggendo le relazioni con le persone a lei più vicine.

E chissà quanti non ne conosciamo di piccoli avventurieri che hanno deciso di lasciare tutto per arrampicarsi sugli alberi, raccogliere more nei cespugli, fare il bagno nudi in torrenti gelidi perché lontani da qualsiasi tetto sotto il quale alloggiare. Eppure l’avventura non deve essere necessariamente estrema. Paolo Cognetti, nel suo Il ragazzo selvatico (2013), racconta di come decide di percorrere un’estate in una baita della Valle d’Aosta, a pochi passi da un piccolo paese sperduto fra i monti. L’importanza di sentirsi soli e disintossicarsi da ciò che ci circonda pare semplicemente un modo per ritrovare se stessi, più forti e più stimolati di prima, pronti poi a tornare nel villaggio, fra la gente, con valori aggiunti da condividere con persone preziose. Un ritorno che per Mowgli, al contrario, è stato l’inizio di una nuova e grande avventura. 

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