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Elena Ferrante al Premio Strega: ci siamo cascati

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Attorno alla partecipazione di Elena Ferrante al Premio Strega 2015 si è sollevato, negli ultimi giorni, un vero putiferio all'italiana. È in assoluto l'argomento del momento, tipo che se non sei minimamente preparato su tutti i retroscena ci fai la figura dello scemo e ti becchi un ma questo dove vive? a denti stretti. Cos'è che rende questa partecipazione così speciale? Tante cose. Cos'è che rende la discussione che si è animata attorno a questa partecipazione così speciale? Non molto. 

Cerchiamo di ricostruire ordinatamente ciò che è accaduto. Per chi non lo sapesse, Elena Ferrante è la scrittrice italiana che in questo periodo sta facendo più parlare di sé. In realtà pubblica da una ventina d'anni (partecipò allo Strega già nel 1992 con L'amore molesto) ma ha raggiunto un notevole successo grazie ai quattro romanzi della serie L'amica geniale che io, udite udite, non ho letto, ma che un bel po' di gente consiglia animatamente (non sempre, tuttavia, i consiglieri sono convincenti come Cecilia e Nellie, quindi uno spesso fa bene a non fidarsi). Tutto bello, tutti contenti, entusiasmo che fiocca addirittura oltreoceano, negli Stati Uniti, e noi che già cominciamo a sognare una letteratura italiana nuovamente dominatrice nel mondo senza se e senza ma. Eppure i ma ci sono.

Il primo, in teoria anche il meno importante, è quello che riguarda l'identità della scrittrice. Elena Ferrante è uno pseudonimo e nessuno (tranne l'editore) sa chi si nasconda dietro questo nome, perciò sta a voi decidere quanto sia importante scoprire la vera identità della scrittrice. Elena Ferrante è Domenico Starnone? Elena Ferrante è Anita Raja, la moglie di Starnone? Per qualcuno il mistero dell'identità è di primaria importanza, per altri no. Ma su questo mistero ci si può giocare parecchio e ci si può tirare su addirittura una bella discussione attorno al Premio Strega, giusto per renderla un po' più frizzante del solito, togliere un po' di polvere e dare l'impressione che ci sia del movimento. 

Passo successivo della storia: Roberto Saviano ha candidato Elena Ferrante al Premio Strega. L'obiettivo? «Mettere fine alle logiche di spartizione, fare in modo che anche altri editori possano aspirare al podio». E ancora: «Propongo te perché credo che la tua presenza possa aiutare questo premio a essere di nuovo qualcosa di vitale e genuino, non solo uno scambio di voti e favori». Saviano, fattelo dire, se non fossi Saviano ti avrei dato direttamente dell'ingenuo, ma dato che sei Saviano ti dico solo che sei molto ottimista, anzi, che lo sei troppo, e che a essere troppo ottimisti in molti casi si rischia (o, quant'è assurdo il mondo) di apparire fuori luogo. Ma proseguiamo. La Ferrante ha accettato la candidatura con tante belle parole, tra cui: «I miei libri, quando non sono rimasti nello spazio privatissimo del cassetto, possono andare dovunque li vogliano i lettori, l'essenziale è che io non debba andare con loro. Non li porto al guinzaglio, e al guinzaglio non mi lascio portare». Quindi possono andare anche allo Strega, tranquillamente. 

Ma, come si diceva, il problema su cui molti si concentrano è quello dello pseudonimo. Può un autore che non si sa chi cavolo sia concorrere allo Strega? La Ferrante già lo ha fatto. Può un autore non presente concorrere allo Strega? Di vittorie postume, di autori che cioè nel frattempo erano passati a miglior vita, ce ne sono state diverse. Quindi il problema tecnico non sussiste. E allora molti ne fanno un problema etico, tipo: se non ti fai vedere, se stai fuori da tutto, andando allo Strega, che è il massimo della partecipazione editoriale e del magna magna, cadi in contraddizione, e oltretutto neanche ci metti la faccia, mentre gli altri nel bene o nel male la faccia ce la mettono. Obiezioni legittime, per carità, ma la parte un po' più interessante del dibattito, che non a caso è quella meno battuta, è un'altra e riguarda due aspetti.

Il primo è: perché la partecipazione della Ferrante dovrebbe cambiare lo Strega in positivo? Partiamo dal presupposto che in ogni epoca ci si immagina fatalmente lontani da una perduta età dell'oro dove tutto era bello e tutto andava bene. Anche lo Strega, nei tempi andati, era un paradiso editoriale in cui vinceva l'opera letterariamente più valida, la competizione era onesta e nessuna polemica diventava sterile? Non scherziamo. Lo Strega è come è oggi da sempre. Dal 1947 a oggi. Stessi tatticismi, stesse tensioni, stessi editori che si scannano, stessi autori che si battono nella fossa dei leoni, stessa gente al Ninfeo (qui forse è la stessa in senso letterale, vista l'età media della platea). Allora lo Strega fa schifo? Aboliamo lo Strega? Anzi, #AboliamoLoStrega? Ma per piacere. Non è un caso che il Premio sia spesso confrontato con Sanremo, altrettanto odiato e amato. Sanremo è una palla, un teatrino di mummie vinto molto spesso non dai migliori, eppure, concedetemi la ben nota banalità, senza Sanremo, o senza la cecità di Sanremo, non avremmo avuto tanti autori validi che poi hanno comunque avuto successo. 

Lo Strega è la stessa cosa. Se scorrete la lista dei vincitori e delle cinquine troverete tante opere scadenti, ma anche tantissime opere che quando arrivano sullo scaffale in libreria gli altri libri devono stare zitti e sull'attenti. Possono o non possono piacere, ma lo Strega lo hanno vinto Flaiano, Pavese, Morante, Tomasi di Lampedusa, Levi, Parise, Eco, Maraini, Veronesi, Ammaniti, Scarpa, Piperno. Non proprio delle pippe, insomma. Certo, lo hanno vinto anche tanti autori poco meritevoli e non lo hanno vinto tantissimi autori meritevolissimi, ma è la natura di ogni competizione, su. Per fortuna non è necessario solo lo Strega a riconoscere il valore di un libro. 

E qui arriva il secondo aspetto, quello della qualità. Lo Strega è vinto dal migliore? Non sempre. Gli editori candidano l'opera migliore che possono candidare? Non sempre. Chi non vince è il migliore? Non sempre. Polemizzare attorno allo Strega, ai candidati, agli editori, ai retroscena, agli editori è utile? Quasi mai. E allora perché anziché battersi contro i mulini a vento e candidare la Ferrante col fumoso intento di cambiare le cose non si prova anzitutto a cambiare la qualità del dibattito? È un obiettivo verosimilmente più facile e raggiungibile, che però anche quest'anno è stato mancato in modo clamoroso. Dopo lo scambio pubblico di lettere su Repubblica tra Saviano e Ferrante, con quegli inchini e quelle giravolte e quelle buone intenzioni un po' stucchevoli (l'unico passaggio interessante è quello che rivela il lato finalmente umano della Ferrante, la quale tradisce la sua natura terrena quando dice che, se non entra in cinquina, lo Strega è «irriformabile» e «va buttato per aria»), c'è stato di tutto e il fondo si è toccato ieri arrivando alle lettere e alle interviste finte, con tanto di voce grossa di e/o che ha smentito tutto. Cioè, se la Ferrante deve aiutare a migliorare lo Strega, qui siamo partiti già col piede sbagliato. Altro che «sparigliare le carte».

La cosa fastidiosa del dibattito, poi, è l'immediata e italianissima guerriglia tra le fazioni che non mette a fuoco neanche lontanamente il fulcro della questione, cioè la bontà letteraria dei libri della Ferrante. Perché qua sembra che la scrittrice debba partecipare allo Strega soprattutto perché è sconosciuta, perché pubblica con un editore piccolo e perché lo Strega va cambiato. Ma in teoria ai lettori e ai critici non dovrebbe interessare che allo Strega partecipino opere valide? E magari quella della Ferrante lo è, eh, ma sembra che la cosa passi in secondo piano e, assurdamente, se qualcuno come Paolo Di Paolo prova a mettere in evidenza le proprie perplessità, diventa subito un rosicone, un gufo. Così ogni critica diventa una manifestazione reazionaria, un tentativo di bloccare il cambiamento. Ma chi cavolo ce lo dice che il treno della Ferrante sia quello del cambiamento? 

Quest'anno lo Strega ha cambiato le regole in modo significativo. Tra le modifiche più lampanti c'è quella che tutela la bibliodiversità, la clausola di salvaguardia che impone nella cinquina finalista la presenza di un medio-piccolo editore (se in cinquina sono tutti editori grossi, per obbligo ce ne sarà un sesto medio-piccolo). Ecco, tiratemi le verdure marce, ma a me questa cosa puzza un po' di contentino e di quote rosa. Che lo Strega sia un campo di finta battaglia riservato a Mondadori e Rcs è cosa nota e ingiusta, ma spesso per sostenere una buona causa si degenera, e va a finire che l'editore grosso in quanto grosso fa schifo e l'editore piccolo in quanto piccolo è un genio. Com'è noto, invece, nella grande editoria lavorano alcuni tra i migliori editor, redattori e uffici stampa d'Italia, non solo manager che con la letteratura non hanno niente a che fare. Allo stesso tempo, nella piccola editoria non c'è solo qualità ingiustamente e oggettivamente messa in difficoltà, ma anche impreparazione, mediocrità, scarso senso per gli affari. Come in ogni settore, d'altronde. 

Il ritornello del libro che è valido perché lo pubblica l'editore sconosciuto anziché Mondadori, quindi, è una scemenza. E la Ferrante non deve vincere lo Strega, né avere la pretesa di cambiarlo, in quanto autrice di un editore medio-piccolo. Deve vincere meritatamente in quanto autrice di un libro valido e impolpare così l'albo dei vincitori con un'opera buona, che è l'unico modo, anno dopo anno, per aumentare la percentuale di credibilità del Premio, in cui nonostante ciò continueranno a esserci strategie, macchinazioni e quant'altro. Ma finché vince un bel libro, le chiacchiere stanno a zero. Detto ciò, l'unica sensazione vera è che anche quest'anno ci siamo cascati. Il complottista che è in me mi dice che hanno cambiato gli interpreti, hanno spolverato un po' qua e un po' là, mettendo in mezzo la faccenda dell'autrice sconosciuta, di Saviano, dell'editore medio-piccolo, in modo che tutto dovesse sembrare entusiasmante e finalmente nuovo. Invece anche quest'anno siamo riusciti ad avere non solo un dibattito scadente e noioso, ma anche un'altra vittoria annunciata. Nell'anno della fusione tra Mondadori e Rcs, la quotatissima vittoria della Ferrante allo Strega diventa un utile specchietto per le allodole, un precedente che può far credere che finalmente le cose stiano andato per il verso giusto. Una cosa renziana tipo #lavoltabuona, per capirci. E noi partecipiamo, discutiamo, ci interessiamo, ci indigniamo, ci illudiamo che, appunto, sia la volta buona, senza avere un'idea precisa di come questa debba essere. L'importante è che ci sia, perciò se qualcuno ce la dà, noi ce la prendiamo, come si prende passivamente lo sciroppo dal cucchiaio. Dopotutto è anche saporito, quindi ben venga. 

 

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