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Americans like it American. Perché negli USA non va la letteratura straniera?

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Ci sono alcune percentuali ormai note a chi frequenta, per lavoro o per passione, il mondo dell’editoria.
58 e qualcosa è la percentuale di italiani che non ha letto nemmeno un libro nel 2014
41 e qualcosa è quella degli italiani che lo hanno fatto. 
4% è l’IVA sugli ebook venduti in Italia dal 1° gennaio 2015.
3 è la percentuale dei libri stranieri tradotti che vengono pubblicati negli Stati Uniti.

Non si tratta di un dato nuovo. Il numero si riferisce infatti a una ricerca condotta nel 2011 dalla quale è emerso che i titoli stranieri tradotti e pubblicati in America rappresentano solo il 3 per cento dei libri pubblicati - una percentuale ancora inferiore, 0,7%, se si restringe il campo ai titoli di narrativa e poesia pubblicati per la prima volta e non alle ristampe – mentre in Europa costituiscono dal 30 al 45 per cento del totale e circa il 20% in Italia. In seguito alla pubblicazione di quei risultati, Chad W. Post, direttore della casa editrice dell’Università di Rochester Open Letter che pubblica solo titoli stranieri, aveva scritto un saggio dal titolo The three percent problem e aperto un blog, Three Percent, dedicato alla diffusione della letteratura in traduzione. 

Da allora non sono stati comunicati dati ufficiali, anche se si sostiene che la situazione stia migliorando, grazie ad una manciata di case editrici che pubblicano opere in traduzione, quali Europa Editions (fondata nel 2005 dai coniugi Ferri di Edizioni E/O), le non profit Archipelago Books  e And Other Stories, la solita McSweeney’s di Dave Eggers (non a caso anch’essa recentemente passata allo status di non profit). Sul blog Three Perecent si legge che il numero di opere tradotte è aumentato da un totale di 360 titoli nel 2008 ai 587 dello scorso anno (qui trovate tutti i translation database pubblicati dal 2008 a oggi). E un paio di mesi fa Ann Goldstein, editor del New Yorker da quarant’anni e traduttrice di una serie di autori italiani negli Stati Uniti, aveva rilasciato un’intervista a Repubblica nella quale sottolineava un certo interesse recente degli Usa verso la letteratura italiana, interesse del quale il caso Ferrante è l’esempio più eclatante.

Se oggi torniamo sull’argomento è perché due giorni fa è uscito su The daily beast un lungo articolo nel quale lo scrittore americano Bill Morris si interroga sul perché gli americani non leggano letteratura straniera. A far scaturire tale riflessione è, come spesso accade, un episodio accaduto all’autore, il quale lo scorso ottobre, passeggiando per Colonia, si è trovato  davanti alla vetrina di una bellissima libreria che esponeva una dozzina di opere del recente Premio Nobel per la letteratura Patrick Modiano, la maggior parte in lingua tedesca, alcune in francese e nessuna in inglese. Sulle prime l’autore si è vergognato della sua totale ignoranza dell’autore francese, ma rientrato a New York ha scoperto di essere in buona compagnia in quanto Modiano era pressoché sconosciuto alla maggioranza dei lettori forti americani e la maggior parte delle sue opere non erano mai state pubblicate in inglese. Ora, il caso Modiano non sembrerà particolarmente significativo nemmeno a noi italiani che leggiamo moltissima letteratura in traduzione – anche in Italia erano pubblicati o in catalogo pochi titoli del Modiano pre Nobel – e mettersi a discutere sul perché l’Accademia Svedese premi spesso autori per lo più ignoti al grande pubblico ci porterebbe fuori strada. Quelle che sono interessanti sono le riflessioni che scaturiscono da questo episodio.

Morris si chiede infatti se negli Stati Uniti ci siano così pochi libri tradotti perché gli americani non li leggono, o se al contrario i lettori americani non li leggano perché sono pochi i titoli disponibili. Probabilmente entrambe le affermazioni sono in parte vere. 

Una prima teoria presa in considerazione è che gli americani siano isolati geograficamente e culturalmente, ma se questo fosse vero in assoluto non si spiegherebbe la penetrazione di autori stranieri di grande successo, come Gabriel Garcia Marquez, Umberto Eco, Carlos Fuentes, Michel Houellebecq, Roberto Bolaño, Stieg Larsson, Milan Kundera, Haruki Murakami. Il fatto che i lettori americani li amino fa pensare che se l’offerta di autori stranieri fosse più ampia, ci sarebbe un pubblico disposto a leggerli. 

Un’altra teoria è che questa assenza sia dovuta al fatto che pochissimi editor americani parlano lingue straniere – non sono tenuti a farlo, vista la pervasività della loro lingua madre – mentre la maggior parte degli autori stranieri hanno (devono avere) un buon livello di inglese. Una ragione che spiegherebbe anche perché la lettura americana è invece così presente all’estero. Inoltre, mentre molte case editrici hanno personale addetto solo all’acquisizione di libri stranieri, questa figura manca in America e spesso gli editori si affidano a degli scout letterari esterni. Anche il fatto che manchi un insegnamento di lingue straniere nelle scuole americane spiegherebbe in parte questa chiusura culturale. 

Ma forse la motivazione principale è che il permeare di questa situazione ha creato una sorta di paura negli editori che, a maggior ragione in questo periodo, non si sentono di “osare”. Se i lettori americani, anche quelli forti, non leggono letteratura tradotta, indipendentemente dalla motivazione, perché accollarsi il rischio di scommettere su un autore? È quello che racconta Judith Gurewich, publisher di Other Press, una delle case editrici più attive nel pubblicare letteratura straniera negli Stati Uniti. La sua scelta di pubblicare lo scrittore tedesco Peter Stamm – nonostante fosse stato paragonato a Kafka, nonostante la prosa scorrevole, nonostante la candidatura al Man Booker International Prize – si è rivelata un buco nell’acqua. Perché dunque sobbarcarsi anche i costi di una traduzione e della promozione di un autore sconosciuto al pubblico americano? 

È interessante osservare che, come riportato dal blog Three Percent, nel 2003 era uscito sul New York Times un articolo molto simile, a firma di Stephen Kinzer, che si interrogava sullo stesso problema, Why americans yawns at foreign fiction, partendo da un caso del tutto simile: l’ignoranza da parte della maggioranza dei lettori americani dello scrittore ungherese Imre Kertesz, Premio Nobel per la letteratura nel 2002. Nonostante tra i due articoli siano trascorsi quasi dodici anni, i problemi paiono non essere molto diversi. Già nel 2003 infatti le case editrici americane, universitarie e non, lamentavano una diffidenza o disinteresse dei lettori americani verso la letteratura straniera, che interessava una nicchia di mercato che si era addirittura ristretta negli anni, per cui gli investimenti in traduzioni risultavano veri e propri azzardi. Come fa notare Chad W. Post, la problematica economica è una risposta così ricorrente da parte degli editori alla domanda circa la mancata pubblicazione di opere tradotte da rendere sempre più necessario negli Stati Uniti il sostegno alle case editrici non profit da parte di donatori, università e del National Endowement for the Art, al fine di garantire la pubblicazione di titoli stranieri. Qualcosa che nel nostro panorama editoriale sembra difficilmente immaginabile.  

Il quadro che viene delineato da questi due articoli, del 2003 e di oggì, è un dominio americano, legato anche allo status dell’inglese come lingua franca, che si può probabilmente estendere ad altri campi dell’intrattenimento, come quello dell’industria cinematografica, e che porterebbe ad un isolamento culturale degli Stati Uniti, che vengono dipinti come restii ad apprezzare storie, stile e ritmi di narrazione non americani. A fare da contraltare a questa chiusura c’è un vero e proprio fanatismo per i prodotti culturali e di intrattenimento americano in Italia e in Europa. 

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