Uno degli esempi di gotico italiano è in realtà un furto narrativo
Oggi ospitiamo un lungo articolo di Giuseppe Ceddìa, (Bari, 1977) dottorando in Italianistica presso l’Università degli studi di Bari, scrittore, pubblicista, organizzatore di rassegne cinematografiche. Si è occupato di letteratura poliziesca e del movimento scapigliato. Ci parla di un furto, diciamo...
L’assunto che pone Igino Ugo Tarchetti come un autore che ha pescato a piene mani nella cultura europea di metà Ottocento è assolutamente fondato e dunque poco opinabile. La cultura francese e inglese filtravano nella vita milanese in maniera assai vivace, non a caso lo stesso Tarchetti si dedicò alla traduzione di alcune opere dal francese e dall’inglese, per quanto padroneggiasse sicuramente meglio la prima tra le due lingue.
Eppure, accanto al lavoro di creazione e traduzione, vi era un lato di Tarchetti che, giocando con l’ironia che mai lo ha abbandonato, si insinuava tra le righe delle sue opere creando qualcosa di originale ma che originale in realtà non era, basti pensare a due dei Racconti fantastici (raccolta pubblicata postuma nel 1869) dai titoli I fatali e Un osso di morto.
L’operazione che compie l’autore nella stesura di questi racconti non può essere ascrivibile al plagio vero e proprio, anche se Tarchetti rivisita in modo assai fedele gli originali, ossia due racconti del francese Gautier, altro nume tutelare tra le influenze dello scrittore milanese.
I racconti di Gautier sono rispettivamente Jettatura del 1856 e Il piede della mummia del 1840 (quest’ultimo letto da Tarchetti solo nel 1863 nel volume che racchiudeva i racconti del francese dal titolo Romans et contes).
Lo spirito umoristico che già avvolge i racconti del francese è reso ancor più esasperato da Tarchetti, da un lato per la lezione derivante dalla lettura di Sterne, dall’altro per il tono tra il canzonatorio e il dissacrante che sempre permea la narrativa dello scapigliato.
Lì dove l’umorismo di Gautier contiene un omaggio a una civiltà del passato (il piede della mummia è quello di una principessa dell’antico Egitto), dunque è più squisitamente raffinato, l’umorismo tarchettiano si fa beffe della società e delle sue classi sociali, essendo, lo scrittore, alieno alla nuova gerarchia che si crea nel post Unità d’Italia, non si fa problemi dunque a rendere protagonista del suo racconto un osso di un morto umile, ossia la rotula di un inserviente.
Leggendo i Racconti fantastici di Tarchetti, insomma, non si può esimersi dal notare influenze assai pregnanti derivanti dai più svariati autori del fantastico, dal già citato Gautier a Poe, da Hoffmann a Nerval. Probabilmente la vera novità del racconto fantastico di Tarchetti è insita proprio nella sua conclusione che è di carattere scientifico, dunque influenzata dal positivismo imperante in quell’epoca. Ma non solo, assurge a ruolo assai solido nella trama dei suoi racconti anche la componente del quotidiano sul quale si poggia l’architettura fantastica.
Il fenomeno surreale non è da Tarchetti descritto come qualcosa che fuoriesce dalla normalità del vissuto quotidiano, anzi è come se il fantastico fosse esso stesso tassello che lo compone, da qui la denominazione più volte utilizzata per connotare i suoi racconti e caratterizzata da un ossimoro, ossia “realtà soprannaturale”, “realismo fantastico” oppure “umanità soprannaturale”.
Fa notare Gaetano Mariani: «Siamo già nel vivo di quella ricerca del magico naturale, del soprannaturale come espressione della realtà quotidiana che Tarchetti si propone di raggiungere in molti suoi racconti»[1].
E proprio la spiegazione finale di carattere positivistico snatura la stessa radice fantastica dalla quale Tarchetti ha attinto per la composizione dei suoi racconti. Se dunque Gautier, per citare l’esempio suddetto, porta avanti un discorso che pone il fantastico come fil rouge dei suoi racconti e rende anche la conclusione di essi puramente soprannaturale, ecco invece che Tarchetti snatura l’iter del suo racconto nel finale e quindi, dopo una trama puramente fantastica, la chiusa è proprio facente parte di quella categoria dell’ “umanità soprannaturale” condita, a sua volta, dall’infiltrarsi della componente positivistica.
Vengono in mente, a tal proposito, le conclusioni di due romanzi gotici che hanno contribuito allo svilupparsi del genere, The Monk di Matthew Gregory Lewis, pubblicato nel 1796, e The Italian di Ann Radcliffe, dell’anno successivo. Anche qui siamo in presenza di due modalità differenti di sbroglio della matassa. Nel primo caso il finale è soprannaturale, col frate Ambrosio che precipita nelle fauci infernali (gotico irrazionale); la Radcliffe invece propende per un finale realistico riguardo le “nere” vicende del monaco Schedoni (gotico razionale).
Il fatto che Tarchetti sia stato tra i primi autori nostrani a cimentarsi col racconto fantastico di sapore goticheggiante è un dato di fatto. Ma cerchiamo di capire se realmente è così oppure se il caso ha voluto che la realtà non sia esattamente ciò che appare.
Il primo racconto fantastico di Tarchetti non fa parte del volume che andrà sotto il nome di Racconti fantastici, è invece pubblicato sulla “Rivista minima” in due parti nel 1865.
La prima parte (quella pubblicata il 31 Giugno) non viene firmata dall’autore ed è quindi anonima, la seconda invece (31 Agosto) verrà firmata da Tarchetti. Il titolo del racconto è Il mortale immortale (dall’inglese).
Tre anni dopo, nel 1868, lo stesso racconto sarà ristampato, questa volta su “Emporio pittoresco”, con un altro titolo ossia L’elixir dell’immortalità (Imitazione dall’inglese).
Il fatto che Tarchetti decida di ristampare il racconto non è una novità, lo facevano molti scrittori dell’epoca, soprattutto considerando il fatto che gli scritti ospitati su diverse riviste erano spesso soggetti a rimaneggiamenti e rettifiche per mano degli stessi autori.
Quel che invece deve far riflettere è la modifica nel titolo e soprattutto quella parola, “imitazione”, assente nella prima edizione del racconto. Abbiamo già detto che Tarchetti si cimentava con traduzioni dall’inglese, quindi verrebbe da pensare, come espone Ghidetti, che l’autore abbia letto un racconto anonimo in lingua inglese, ne abbia tratto lo spunto e lo abbia pubblicato a suo nome, che in sostanza abbia adottato lo stesso modus operandi con il quale si è rapportato ai racconti di Gautier, come suddetto.
Dice Ghidetti: «La dimensione fantastica che, in seguito, avrebbe finito col prevalere nella narrativa di Tarchetti è annunziata anche da una “imitazione” da un introvabile originale inglese, dal titolo Il mortale immortale […] storia che ripete un topos del primo romanticismo europeo […] quello di un uomo condannato a vivere in eterno una vita immortale»[2].
Ghidetti dunque si limita a dire ciò, non parla di reale imitazione né tantomeno di plagio, fa intuire insomma un’influenza che Tarchetti avrebbe ricevuto dalla lettura in lingua di questo racconto introvabile inglese. Anche Mariani, nelle righe da lui dedicate al racconto tarchettiano, si limita a dire che: «Sullo stesso registro di un’umanità che chiameremo soprannaturale si muove la storia dell’uomo condannato a una perpetua giovinezza che il Tarchetti ci racconta ne L’elixir dell’immortalità»[3].
Mariani non parla per niente, come invece fa Ghidetti, di influenza o imitazione da un originale introvabile inglese; anzi fa risalire la radice della narrazione tarchettiana a tutt’altro, sostenendo che «il precedente immediato e indiscutibile del racconto tarchettiano è senza dubbio il balzacchiano Elixir de longue vie, pubblicato nel 1830 e, meno sensibile o più opaco, L’elixir de jeunesse pubblicato ne L’Artiste del 1833 da Horace Raisson»[4].
Mariani fa notare, a dimostrazione di quanto suddetto riguardo la particolare “umanità” del fantastico tarchettiano, che il tema balzachiano puramente fantastico è reso quotidiano da Tarchetti.
Probabilmente Tarchetti avrà anche letto il racconto di Balzac, ma qui cercheremo di spiegare il perché non è da ricercare lì l’influenza della sua composizione e il perché non si tratta affatto di influenza o plagio ma di ben altro.
Nel 1992 sul supplemento letterario del “New York Times” appare un articolo di Lawrence Venuti, il traduttore in inglese dei racconti fantastici tarchettiani, dal titolo “Un delitto orribile di Igino Ugo Tarchetti”.
Senza mezzi termini Venuti sostiene che il racconto di Tarchetti L’elixir dell’immortalità altro non è se non il calco di un racconto di Mary Shelley dal titolo The mortal immortal (titolo che lo stesso Tarchetti aveva usato per la prima edizione del suo racconto) pubblicato nel 1833 sulla rivista “The Keepsake”.
Ma in che senso calco? Nel senso non di influenza che Tarchetti subisce dalla Shelley, ma bensì di vera e propria traduzione. Ecco allora che il discorso di plagio si fa ambiguo e dissonante in questa precisa situazione.
In sostanza, secondo Venuti, Tarchetti traduce il racconto della Shelley e lo fa suo, facendolo passare per un’opera di sua composizione.
La verità è dunque più vicina alla teoria elaborata da Ghidetti (che almeno parlava di imitazione da un introvabile inglese) che non a quella di Mariani (che parla di influenze balzachiane e non cita minimamente l’eventualità di un calco dall’inglese).
Ciò non toglie che entrambi gli studiosi non parlano affatto di traduzione effettiva da un originale e di plagio nel senso di acquisizione indebita di qualcosa composta da altri e fatta passare per creazione propria.
Eppure, complice la coincidenza, il racconto della Shelley è dello stesso anno di quello di Balzac citato da Mariani, ossia il 1833. Viene da pensare che Tarchetti abbia letto il francese ma poi abbia tradotto l’inglese facendolo passare per opera personale.
E chissà che la decisione di ristampare il racconto con un altro titolo tre anni dopo non sia espediente aduso ad aggirare eventuali accuse di plagio.
Il plagio effettuato da Tarchetti dunque non è da ricondursi alla trama del racconto (come forse, volendo sbizzarrirci, è più plausibile sia avvenuto nei confronti di Gautier) ma bensì dall’appropriazione indebita di qualcosa non sua, ma solo tradotta. Siamo in presenza di un vero e proprio furto narrativo.
Il perché Tarchetti decida di dar vita a questa non certo nobile operazione può vedere tra le sue cause il fatto che un racconto rendeva di più di una traduzione, sia dal punto di vista economico che dal punto di vista della fama dell’artista, come lo stesso Venuti fa notare.
Una cosa è certa, la prima traduzione italiana del racconto di Mary Shelley è proprio quella attribuibile a Tarchetti, ma l’autore preferisce farla passare non per tale ma per un racconto da lui inventato, infatti «nel 1868 si presentò a Tarchetti un’altra opportunità di riconoscere la sua traduzione, opportunità che egli non colse: nel periodo in cui lavorava al periodico Emporio pittoresco ristampò il racconto sotto il suo nome con un titolo diverso, L’elixir dell’immortalità (imitazione dall’inglese)»[5].
Tarchetti sembra quasi voler suggerire con i sottotitoli che connotano le due edizioni del racconto (“dall’inglese” nel primo caso, “imitazione dall’inglese” nel secondo) una volontà, forse non del tutto chiara, di far intendere al lettore che vi sia un’influenza precedente che funge da struttura del racconto, ma non si lascia andare a reali e sincere ammissioni riguardanti la presenza di fonti precedenti alla base della sua creazione.
Come ancora fa notare Venuti: «Tarchetti introdusse alcuni cambiamenti significativi: cambiò una data, usò nomi diversi per i due personaggi principali, omise alcune espressioni e frasi, e ne aggiunse delle sue, operando così una forte trasformazione del testo inglese. Tuttavia […] la sua versione italiana è dominata dal proposito della riproduzione: aderisce così strettamente alle caratteristiche sintattiche e lessicali dell’inglese di Mary Shelley da risultare più una traduzione interlinguistica che “un’ imitazione”»[6].
Poco importa, alla fine, se il protagonista del racconto di Tarchetti ha trecentoventinove anni e quello del racconto della Shelley ne ha trecentoventitrè, se i nomi cambiano, ecc.
Il fattore stesso che pone il racconto non come creazione ma come traduzione annulla già di per sé i sottotitoli parentetici che Tarchetti aveva utilizzato per la sua composizione. Non imitazione dunque ma traduzione vera e propria.
Il successivo plagio quindi è quello che pone Tarchetti come autore del racconto, un’operazione assolutamente volontaria e derivante principalmente, opta Venuti, da motivi finanziari. Quando infatti nel 1869 Tarchetti pubblicò la sua traduzione del romanzo di Charles Dickens di quattro anni prima dal titolo Il nostro comune amico non ebbe alcun problema a farsi riconoscere nel ruolo di traduttore.
In relazione a quanto scoperto da Venuti, il plagio effettuato da Tarchetti sarebbe dunque di duplice fattura, non solo per aver copiato il racconto della Shelley ma anche per averne fatta una traduzione non dichiarata.
Infatti dice Venuti: «Con un plagio costituito da una traduzione egli introduceva un cambiamento decisivo nella forma e, in particolare, nel linguaggio dell’originale; affermando di esserne l’autore mascherava questo cambiamento, ma al tempo stesso indicava che era tanto decisivo da essere sufficiente per designare la creazione di un nuovo testo che nasceva con lui. Il plagio di Tarchetti demoliva velatamente la distinzione che un’idea individualistica di paternità poneva tra autore e traduttore, creatore e imitatore. Ma poiché il plagio non venne scoperto né razionalizzato, continuò a sostenere tale distinzione»[7].
Tarchetti sembra attribuire quasi un valore creativo al concetto stesso di traduzione, non si tratta soltanto di farsi portavoce letterale del messaggio originale inglese ma anche di farsi re-interprete di quel messaggio, adattandolo al contesto della lingua italiana.
Una traduzione creativa quella di Tarchetti che – tramite l’indiscutibile plagio – connota il suo racconto, ne delinea la sequenza, lascia tracce di carattere “italiano” nella stessa stesura dell’opera.
Il racconto di Tarchetti finisce per diventare un nuovo testo di sapore originale, anche se è triste poi ammettere che uno dei primi esempi di gotico italiano nasce non per sua spontanea germogliazione ma per effetto di un plagio, elegante certo, ma sempre plagio consistente in «una traduzione invisibile fatta passare per originale»[8].
Il processo che porta lo scapigliato a scegliere di tradurre proprio un racconto fantastico inglese è probabilmente connesso alla voglia di superamento di certo realismo letterario di stampo romantico imperante all’epoca.
Il fantastico nell’Ottocento italiano era un genere poco frequentato, allora ecco che i modelli europei servono a determinati autori per riuscire nell’intento di stemperare prima, superare poi, certo realismo di impianto tipicamente e squisitamente manzoniano.
Ma l’odio-amore verso il Manzoni è sempre e comunque presente nella stesura delle opere degli autori di questo periodo. Prescindendo dall’esempio di Rovani, che mai ha negato la sua volontà di essere “manzoniano” nello stile ma non nelle tematiche, altri scrittori – tra i quali Tarchetti stesso – optano invece per uno stravolgimento dello stile manzoniano che, in fin dei conti, riesce a metà.
Il tentativo di allontanamento dalla lingua e dallo stile dell’autore dei Promessi sposi finisce per diventare una “variazione sul tema”, ossia un lavoro di destrutturazione e ricomposizione successiva (condita certo di nuove influenze “figlie” delle esperienze europee dell’epoca) della stessa base manzoniana.
Tarchetti pone su questa base manzoniana l’espediente nuovo del fantastico sinora assente in Italia; da un lato quindi un allontanamento dal Manzoni sicuramente volontario, dall’altro la presa d’atto che, anche nel voler essere anti-manzoniani, si finiva con lo scontrarsi con questo esempio assai presente e difficilmente superabile.
Si cerca di destabilizzare una radice assai solida – quella manzoniana – e non riuscendo a compiersi l’operazione di annullamento della stessa, si finisce per innestarla di nuovi parametri che, in questo preciso caso, sono le influenze goticheggianti del fantastico proveniente dall’Inghilterra.
Insomma «dal punto di vista linguistico Tarchetti operava una “deterritorializzazione” interna alla stessa lingua italiana, servendosi del linguaggio manzoniano per stravolgere il discorso narrativo dominante conducendolo decisamente verso il fantastico. In un periodo in cui le traduzioni italiane di romanzi fantastici stranieri era ridotta a pochissimi titoli, Tarchetti irrompeva sul panorama letterario minandolo dall’interno e destabilizzando il modello borghese egemone»[9]. E il modello borghese egemone era assolutamente impregnato di stile manzoniano.
Accanto al processo di superamento linguistico di certi parametri vi è la componente che pone maschilismo e femminismo tra loro in contrasto da un punto di vista squisitamente letterario-ideologico.
Qui una contraddizione rende non poco ingarbugliata l’analisi. Tarchetti, nell’appropriarsi indebitamente di un racconto da lui solo tradotto e peraltro scritto da una donna, nega la creatività della Shelley e rende il suo plagio vagamente ed egoisticamente di sapore maschilista.
Ma, come contraltare, esalta il femminismo dell’autrice inglese «enfatizzando per esempio la satira antimaschilista dell’inetto protagonista maschile»[10].
Si muove a metà Tarchetti, ma se pensiamo a certe sue altre opere, in primis il romanzo Paolina, non si può certo negare una vicinanza dell’autore alle problematiche femminili, una sua particolare sensibilità che lo pone vicino alla mentalità delle donne dell’epoca – soprattutto quelle non altolocate – che, a volte, sono costrette a mercificarsi per rendere vagamente vivibile la propria esistenza.
Ecco allora che il racconto tarchettiano un peso lo assume eccome, e «mediante il plagio, annulla la condizione di secondo grado del testo tradotto presentandolo come il primo racconto gotico scritto nell’italiano del registro realistico più diffuso, e stabilisce la sua identità di scrittore d’opposizione»[11].
Questo essere “scrittore d’opposizione” significa anche essere, in qualche modo, contro la morale benpensante dell’epoca, contro certo maschilismo becero, avversi alla concezione imperante che rende proprietà privata beni, corpi e arte, nemici insomma di un modus vivendi che allo scapigliato stava decisamente stretto.
La pietra da lui lanciata nello stagno della composizione crea successivi cerchi concentrici che saranno le opere gotiche e fantastiche dei fratelli Boito e di Emilio Praga, tasselli che completano il puzzle di questa nuova narrativa fantastica italiana, il cui embrione sta proprio nel racconto-plagio di Tarchetti.
Imprescindibilmente il racconto si erge a capostipite, dunque, di composizione fantastica per eccellenza e, volendo sbizzarrirsi, le associazioni che vengono in mente alla lettura sono tante e legate alle immagini che altri autori hanno delineato con le loro opere.
Pur essendo una traduzione il racconto è intriso di reminiscenze gotiche, fantastiche, metafisiche, provenienti da altre imprese.
Quando il protagonista, in preda a pensieri amorosi verso la sua amata, osserva la boccetta che contiene l’elisir dell’immortalità, mentre lotta con se stesso per assecondare o respingere il desiderio di accostare le sue labbra al portentoso liquido, ecco che le immagini che il suo pensiero partorisce diventano sogno, irrealtà, i luoghi della sua vita diventano lontani ricordi dolorosi ed egli dice di pensare a delle scene meravigliose che mai più si rinnoveranno.
«Mai più! Il mio cuore era lacerato da questa parola: mai più!»[12]. E questa parola come può non ricordare il “mai più” del corvo di Poe, la maestosa solennità macabra con la quale l’uccello sprigiona essenze inquietanti e metafisiche. Così come un tema tarchettiano, presente soprattutto nei romanzi, ossia quello della fuga dal lusso per un ritorno allo stato di povertà (che contiene un ritorno all’umiltà dello stato di natura) si evince anche da questa traduzione; dice la ragazza protagonista del racconto «Oh! Vincenzo […] conducimi alla capanna di tua madre; che io abbandoni tosto questo lusso abborrito, questo carcere dorato…, ridonami alla povertà ed alla felicità!»[13].
Sembra quasi che Tarchetti abbia scelto con cura il racconto da tradurre. Molti dei temi della Shelley sono gli stessi che Tarchetti ha sempre adoperato come suoi, temi che hanno sempre funto da colonna portante della sua composizione e della sua idea di società, topoi che – visti alcuni accostamenti su citati – erano mutuati anche dalle poetiche di altri autori.
C’è allora uno spesso cordone che lega la Shelley a Tarchetti, un legame voluto dall’autore scapigliato nel rendere la sua versione del racconto dell’autrice inglese, ma anche una sorta di sentire comune verso tematiche nuove e inediti generi (il fantastico in questo caso) che, come abbiamo già detto, condiscono il reale di nuove prospettive d’analisi.
Tarchetti, nel dare l’avvio al fantastico italiano, “sceglie” Mary Shelley e un suo racconto, perché esattamente sincronizzato su tematiche a lui care e ottimali al pretesto narrativo.
Il processo nella sua integrità indica, a mio avviso, non un caso ma bensì una netta volontà dell’autore che, seppur spuria, in quanto parto di un’operazione di traduzione, è assolutamente in sintonia con il disegno generale della visione dell’autore concernente la tematica compositiva.
Pazienza se uno dei primi esempi di fantastico italiano è una forma di plagio; un nobile obiettivo può rendere elegante qualcosa che, a una prima e fugace riflessione, sembra non essere tale.
L'articolo L’Elixir dell’immortalità, Igino Ugo Tarchetti e un furto sembra essere il primo su Finzioni.