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Distopie, anarchici, caffè e sigarette: un omaggio a George Orwell

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E tu, adesso che mi hai visto come sono veramente, riesci ancora a guardarmi?

Ricorre oggi l'anniversario della nascita di George Orwell (al secolo Eric Arthur Blair, nato il 25 giugno 1903 e morto il 21 gennaio 1950), e mi rendo conto soltanto adesso che non è per nulla facile parlare di uno scrittore di tale portata. Come si fa a trovare ancora qualcosa di interessante da dire di un autore così evidentemente interessante come Orwell? Perché tutti quanti abbiamo letto Orwell, che si tratti della Fattoria degli animali, di 1984, di Omaggio alla Catalogna, o ancora — per il lettori più ricercati — di Senza un soldo a Parigi e a Londra o Fiorirà l'aspidistra. George Orwell è quel classico/rete di sicurezza che è sempre facile tirar fuori con sicurezza nelle discussioni libresche; è l'ABC dell'aspirante idealista con penchant politicheggiante; insieme a William Golding, a Kurt Vonnegut, ad Aldous Huxley e Ray Bradbury, Orwell è lo scrittore della distopia novecentesca, del totalitarismo di "uno stivale che calpesta un volto umano — per sempre."

George Orwell è stato per me forse il primo autore per il quale sviluppai quell'ossessione comune a molti lettori per cui dopo poche pagine ci si convince all'improvviso di aver trovato la propria voce distante dalle nostre corde vocali, stampata sulle pagine di un libro. È quel tipo di ossessione per cui di uno scrittore si vuol leggere tutto tutto, dai romanzi ai saggi, dalle lettere alle biografie, fino alle liste della spesa. Ricordo che di Orwell comprai il Meridiano Mondadori, a qualcosa come sedici anni, spendendo numerosi e sudati denari. Per qualche tempo cominciai anche ad andarmene in giro con una felpa con su scritti con stencil e bomboletta spray i tre slogan del Partito del grande fratello. Era mia ferma intenzione andare in Catalogna, una terra che immaginavo tutta quanta ocra, in forma di stereotipi di una Spagna che non conoscevo, popolata da anarchici e trotzkisti e finti militi cadenti immortalati da Robert Capa.

Mi rendo conto ora, con qualche anno di più, che questa propensione alla venerazione non è mai del tutto positiva. Lo scrittore cinese Lu Xun diceva che ci sono due maniere efficaci per desautorare una voce critica, per disinnescare il potere eversivo di una mente lucida: o si uccide la persona che le incarna, oppure si fa di questa persona una statua da porre su un piedistallo e la si comincia a venerare non tanto per quel che dice, ma per il fatto che è diventata appunto una statua, ovvero un'invenzione retorica. Al netto del lucido manifesto di idee che rappresentano i suoi libri più famosi, Orwell comunque (e fortunatamente) non merita questo piedistallo. Nonostante la sua grande lucidità, anche lui fu succube dei meccanismi ideologici e dell'iper-retorica manichea della guerra fredda: nel 1948, a pochi anni dalla morte — e questo è un aneddoto piuttosto ombroso riguardo all'inventore del grande fratello — Orwell si mise a collaborare con l'Information Research Department inglese, un ufficio costruito con lo scopo di contrastare la propaganda sovietica in suolo britannico. Per l'IRD Orwell lavorò da informatore, denunciando colleghi, scrittori e giornalisti sospettati di essere "cripto-comunisti, simpatizzanti, persone comunque inaffidabili". Grande secchiata di acqua gelida, non è vero?

Poco male, comunque. Giudicare il valore di uno scrittore soltanto da un gesto infelice come questo sarebbe altrettanto sbagliato che vedere in Orwell niente altro che l'incarnazione reale e combattiva del personaggio di Winston Smith: entrambe sono mistificazioni. George Orwell merita di essere letto, ma soprattutto merita di essere (ri)letto con lo stesso vigore critico che anima la sua penna contro le mistificazione del linguaggio politico, l'abuso del potere, l'illusione dietro a ogni ideologia. L'IRD è stato per Orwell la gabbia di ratti impazziti e affamati che ha infranto l'animo di Winston Smith portandolo a vendere l'amata Julia al grande fratello: ciò non ci impedisce di amare il personaggio, ma al contrario l'imperfezione lo rende ancor più dolorosamente umano.

E dunque, cosa rimane da leggere? E soprattutto, come si fa a consigliare qualcosa di classico? Di Orwell c'è molto in cui perdersi: c'è lo scrittore in erba, giovane e squattrinato nelle memorie di Senza un soldo a Parigi e a Londra; ci sono le vestigia dell'imperialismo inglese in India nei Giorni in Birmania; ci sono le tendine ricamate e le piante di aspidistra della scialba borghesia londinese, e la rispettabilità e il decoro della domenica in chiesa in Fiorirà l'aspidistra; c'è la Spagna di Omaggio alla Catalogna, ricca di ideali giovanili e brigate anti-fasciste, quella Spagna in realtà sconfitta, nella quale Albert Camus imparò che "si può essere nel giusto e comunque venir sconfitti, che la forza bruta può abbattere lo spirito, e che ci sono tempi in cui il coraggio non è più ricompensa a se stesso. Ed è questo che spiega, senza dubbio, perché per così tante persone in tutto il mondo il dramma spagnolo fu vissuto come una tragedia personale".

Ma la bellezza di questi romanzi rischia di adombrare un aspetto di George Orwell che è in realtà ancora più brillante, ovvero quello del saggista e giornalista. Sono di Orwell infatti alcuni dei saggi più belli in lingua inglese scritti nel corso del ventesimo secolo, ed è verso questi saggi che quest'articolo sgangherato voleva andare a parare fin dal principio. Personalmente, penso che il talento linguistico dell'autore di 1984 si mostri soprattutto nella non-fiction, come per esempio nella sua traduzione in politichese dell'Ecclesiaste biblico ("Vanità delle vanità; tutto è vanità», Che vantaggio ha l'uomo da tutta la sua fatica in cui si affatica sotto il sole?") in "Politics and the English Language". In questo saggio Orwell scrive contro lo squallore e il "contagio" del linguaggio politico, costruito per "far suonare come verità le menzogne, rendere rispettabile l'omicidio, e dare una parvenza di solidità a quel che è solamente vento". C'è poi "Books v. Cigarettes", ovvero "Libri versus sigarette", nel quale Orwell si trova a riflettere su quale dei due vizi svuoti di più il suo portafoglio e su che cosa convenga di più spendere i propri, scarsi risparmi.

Questi sono soltanto due fra le decine di piccoli gioielli che costellano le opere maggiori di George Orwell, saggi e articoli impeccabili e affilati come lame di rasoio contro le cattive abitudini dell'uomo e della sua lingua. Insomma, di Orwell rimane molto da leggere, e non esistono ragioni al mondo che ci dicano di non farlo. Buona lettura.

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