Photo Credit: Titina Chalmatzi
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Stiamo sospesi. È l’ora in cui attaccano
Gli Dei a lavorare; sempre arrivano.
La macchina li depone giù ‒ salvezza
Agli uni; agli altri decretata,
Con fulminea violenza, fine.
Ci sistemano in fretta, eccoli
Usciti già di scena. Da capo:
Ricominciamo.
(Da L'intervento degli Dei, traduzione di Guido Ceronetti)
Cadono oggi contemporaneamente, per un tiro balordo della Tyche, il 151° anniversario della nascita e l’81° anniversario della morte di uno dei più grandi poeti greci dell’età moderna, Konstantinos Kavafis.
Di origini costantinopolite, Kavafis nacque nel 1863 ad Alessandria d’Egitto, «principessa e mignotta» per Lawrence Durrell, vivacissimo porto e crocevia di culture diverse, dove i genitori, ricchi borghesi dediti al commercio, si erano trasferiti per affari.
Dopo una giovinezza passata in Inghilterra, Kavafis decise di tornare nella sua città natale e di prendere la cittadinanza greca, trovando impiego al Ministero dei Lavori pubblici.
Alessandria fu per lui il ponte per entrare in contatto con la cultura europea. Abitava infatti vicino al bar Pastroudis, luogo di ritrovo di importanti personalità del panorama letterario dell’epoca. Conobbe così Somerset Maugham, Durrell, Forster e Ungaretti, che ne furono portavoce in Inghilterra e in Italia prima ancora che la sua opera poetica venisse data alle stampe. Ungaretti in particolare ricordò gli insegnamenti ineguagliabili tratti dalle conversazioni con il poeta greco, che «lasciava cadere un suo motto pungente e la nostra Alessandria assonnata, allora in un lampo risplendeva lungo i suoi millenni come non vidi mai più nulla risplendere».
Cittadino d’Europa e del Mediterraneo, Kavafis è senza dubbio greco nel suo fare poesia. Benché la patria d’origine sia stata meta di soli due suoi viaggi, la Grecia come patrimonio di miti, come orizzonte di riferimento culturale, come luogo dello spirito è sempre presente nelle sue liriche. E lo stesso vale per la lingua scelta per scrivere: non l’inglese, che pure Kavafis conosceva benissimo e usava spesso per annotare i suoi pensieri, ma il greco. Anzi, il dimotikí, la lingua del popolo e della gente comune, con cui ci parla di un passato glorioso e solenne (ellenistico, bizantino, romano), ma con cui indaga anche il mondo moderno dei personaggi ai margini della società, di coloro che vivono la fragilità e l’incertezza del loro destino.
Per molti versi fu una figura “ai margini” anche lui: cittadino di una metropoli ai confini dell’Europa che viveva gli ultimi anni di splendore, poeta di una lingua «di tramonto», come la definisce Guido Ceronetti, e impossibile da imbrigliare all’interno di una corrente o un movimento. E poi scandalosamente omosessuale.
A lungo rimasto in ombra, e forse non solo per cattiva volontà dei suoi contemporanei, visto che destinava le poesie a fogli volanti che solo raramente erano raccolti in fascicoli, ebbe pubblicata la sua prima raccolta nel 1935, due anni dopo la sua morte. Sono solo 154 i testi di Kavafis giunti a noi, che ne hanno fatto però uno dei maggiori poeti del primo trentennio del ’900.
Cifra della sua produzione, in cui si intrecciano rievocazioni del passato e motivi del presente, è l’interesse per le epoche di decadenza, per le parabole discendenti, per le sconfitte e le fragilità. Temi che ce lo rendono vicino, attualissimo cantore di sconvolgimenti e crisi di un mondo in cui anche noi ci sentiamo, sempre più spesso, attori inermi, piccoli uomini impotenti di fronte alla furia degli dei.
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