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Fare memoria di Primo Levi

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L’undici aprile di ventisette anni fa, il giorno in cui Primo Levi morì cadendo nella tromba delle scale della sua casa di Torino, Claudio Magris scrisse un articolo che cominciava così: «È morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale». Una frase lapidaria che rimarca un valore morale delle opere di Levi che è inscindibile dall’opera stessa. 

Scrivendo questo pezzo mi sono chiesta se fare memoria di Levi è inevitabilmente fare memoria dell’Olocausto, e la risposta è probabilmente sì. 
Se Levi non fosse sopravvissuto a Auschwitz, per una serie di circostanze che lui stesso ha definito fortunate (tra le quali una basilare conoscenza del tedesco e le sue competenze di chimico), sarebbe rimasto solo uno dei tanti numeri, il 174.517, in una conta infinita di vittime. Se nel febbraio del 1944 Levi non fosse stato deportato nel campo di Buna-Monowitz, allora conosciuto come Auschwitz III, probabilmente sarebbe rimasto un chimico come tanti altri chimici, magari più brillante di altri, un dirigente di successo della SIVA di Settimo Torinese.

Il suo essere scrittore nasce proprio dall’urgenza di condividere quello che era stato. L’opera con la quale probabilmente la maggior parte dei ragazzi italiani viene a contatto per la prima volta con l’Olocausto, Se questo è un uomo, nasce fin dai giorni del lager come bisogno, definito irrinunciabile dall’autore, di dare testimonianza. 
«Vi comando queste parole, scolpitele nel vostro cuore», così feci poco più che bambina, imparando a memoria i versi che introducono il romanzo e da allora non riuscii mai a conciliare nella mia testa l’immagine del Levi sopravvissuto a quella del Levi suicida. 

Ma la storia di tutti questi "se" non è ancora finita. Rifiutato da molte case editrici, tra le quali Einaudi, il romanzo viene pubblicato nel 1947 da un piccolo editore di Torino, De Silva, in sole 2.500 copie. E ne vende 1.500. Einaudi tornerà sui suoi passi solo nel 1958, e solo con questa seconda pubblicazione il libro ottiene un ampio successo presso i lettori. Negli anni intercorsi tra il 1947 e il 1958, Levi torna a fare il chimico a tempo pieno, considerando chiusa la sua parentesi di scrittore. Ma nel 1955, in occasione di una mostra organizzata a Palazzo Madama sul tema della deportazione, viene invitato a tenere una conferenza che lascerà il pubblico, specialmente i giovani, fortemente emozionato. L’occasione lo spinge a riprendere in mano il libro e, dopo alcuni rimaneggiamenti, a riproporlo a Einaudi che finalmente lo pubblica nella collana dei Saggi, con una sovracoperta di Bruno Munari. Forse i tempi erano finalmente pronti: le prime duemila copie vengono immediatamente esaurite e il romanzo viene tradotto all’estero. La pubblicazione del romanzo segna anche l’inzio del sodalizio con la casa editrice Einaudi. 

Il successo incoraggia Levi, lo riavvicina alla scrittura, prima in affiancamento alla sua carriera di chimico e dal 1975, dopo la pensione, come impegno a tempo pieno. Nel 1962 incomincia a lavorare a un nuovo romanzo sul lungo viaggio di ritorno da Auschwitz, La tregua, che vince la prima edizione del Premio Campiello nel 1963. Seguiranno la raccolta di racconti in parte autobiografica Il sistema periodico, il libro in cui, all’interno di un racconto intitolato Oro, Levi accenna a quel "segreto brutto" risalente al suo breve passato partigiano – «Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi» - segreto del quale tanto si è discusso l’anno scorso in relazione all’uscita del libro Partigia. Una storia della resistenza di Sergio Luzzatto che fornisce una, per alcuni controversa, versione dell’esecuzione dei due compagni da parte della piccola banda partigiana in cui militava lo stesso Levi. Nel 1978 pubblica il romanzo La chiave a stella, che vince il premio Strega lo stesso anno. Nel 1982 torna a parlare della Seconda Guerra mondiale con Se non ora, quando?, fortunato titolo  tornato di recente alla ribalta come slogan del movimento femminile creatosi in Italia nel 2011. L’ultima opera è I sommersi e i salvati, del 1986, nel quale Levi parla nuovamente dell’Olocausto cercando di affrontare il difficile tema della "zona grigia" di ebrei che lavorarono per i tedeschi nei campi di concentramento, nei cosiddetti reparti di Sonderkommando. 

Se è vero che l’opera di un autore è sempre legata in qualche modo alla sua biografia, per Primo Levi la vita è sostanza e movente della scrittura, il che rende impossibile scindere le due cose.
Se è vero che non esistono in assoluto libri che "devono essere letti", forse per quelli elencati sopra potremmo fare un’eccezione. 

 

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